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Lea Mattarella (2007)
Effetto notte

Cercavamo di dipingere il paesaggio con la più grande fedeltà. Fummo molto sor­presi, guardando i nostri quattro studi, di vederli cosi diversi. I nostri occhi aveva­no visto lo stesso luogo, ma ognuno attraverso la propria individualità.
Ludwig Richter

Non aspettatevi il Sud. Il primo luogo comune da sfatare guardando le città dipinte da Giuseppe Puglisi è che ci sia la luminosità calda del meridione, i muri scrostati, cieli d'azzurri abbaglianti, un sole acce­cante. Non proteggete lo sguardo con la mano, non ce n'è davvero bisogno. Puglisi è un catanese che sogna il Nord, cacciatore di luci fredde, lunari.
L'altra fantasia riguarda le sue invenzioni visionarie: non sono il frut­to dell'immaginazione e neanche del sogno; si tratta semplicemente del suo universo quotidiano, di quello che ha davanti a sé. A trasfi­gurarlo non è altro che il proprio temperamento. Perché la pittura, quando è vera, non imita ma interpreta.
Giuseppe guarda il mondo dall'alto, si interroga sull’infinito, rivolgendo la propria curiosa attenzione soprattutto verso la dilatazione dello spazio, la percezione di un'immensità.
«Devo vedere ciò che dipingo» dice, ma poi gli piace renderlo irrico­noscibile. Suggerisce, cerca di definire il meno possibile, il suo lavo­ro sulla tela è come un ricamo che non aspira a essere preciso ma cerca la profondità. Ogni angolo di questi grandi quadri è lavorato con lentezza e costanza. Niente nasce dalla fretta: un edificio si costruisce con pazienza. Puglisi lo sa. E le sue città sono un insieme di costruzioni, ognuna delle quali vive nella sua essenziale verità di piccole e solide pennellate sovrapposte, ma anche nell’insieme, nel rapporto con le altre.
Questi cinque dipinti sono una sola storia, anzi una sola forma, per­ché di racconto nelle opere dell'artista quasi non ce n'è. Cosa succe­de in questi spazi urbani, quali eventi capitano laddove brillano quel­le piccole luci accese? L'artista non lo sa, non gli interessa. Per lui la città è scheletro, non luogo da abitare.
È un po' come immaginare un gruppo di bambini con un pallone nel parco. Arrivano e si buttano con foga sul prato, cominciano a corre­re, calciare, urlare. Ma può accadere che ve ne sia uno un po' in disparte, si avvicina lentamente, guarda i fili d'erba, alza la testa sulle fronde degli alberi, magari la palla la prende pure, ma per rigirarsela tra le mani. Certo, è il figlio che le mamme non vorrebbero avere, quello sul quale ci si interroga, che magari si sgrida pure: ma perché non vai a giocare con gli altri? Ma quello continua imperterrito la sua opera ai margini della festa di grida e movimento: proprio non ne vuole sapere di entrarci dentro. Non si sporca con la polvere, casomai s'incanta a guardare come questa si alza. Senza avvicinarsi troppo. Occhi fissi su un punto, contempla.
Puglisi fa così. Ha scelto di restare in quell'angolo appartato, a lato del caos, di non infilarsi nella mischia, tra le strade, i rumori, gli odori delle sue città. Afferra da lontano. Proprio come il nostro immagina­rio bambino. Che possiamo pure pensare a un bel momento mentre chiede palla. E dopo aver guardato tanto, studiato, analizzato, quan­do si butta dentro niente di più facile che faccia subito goal. Ma sareb­be l'inizio di una nuova storia. Certo, chissà, magari un giorno anche il nostro pittore scenderà in strada a inseguire la traccia di una luce su un muro, a narrarne fatti, segreti, minimi eventi.
In realtà però noi sappiamo bene che esistono due tipi di approccio alla realtà: l'immersione e la contemplazione. E che Puglisi, per il momento, ha decisamente scelto la seconda.
In tutto quello che fa, rivendica il distacco. Come quando parla del colore: «Deve germinare dalla tela; io so che è mio e sicuramente mi appartiene, ma devo avere la sensazione che sia nato lì, dalla stessa composizione del quadro». Quindi il colore perfetto è l'armonia, il punto di incontro tra ciò che è dentro, appartiene alla propria inte­riorità, e quello che vive altrove e magari esisteva anche prima di te. D'altra parte, penso che tutta l'opera di Puglisi si possa interpretare come ricerca di equilibrio, tentativo di sorprendere i momenti di pas­saggio. Non è un caso che i suoi paesaggi urbani scelgano di illumi­nare la notte. Oppure siano ambientati al crepuscolo, nell'attimo in cui è come se un velo, lentamente, ricoprisse il mondo. Spesso l'universo si confonde: le luci della città sono le stesse del cielo, hanno la medesima consistenza, come se emergessero da una nebbia.
Mentre dipingeva queste grandi opere, Giuseppe ha realizzato un pastello che rende visibile e palpabile la sua convinzione che spazi lon­tani, immensi e sconosciuti possano specchiarsi uno dentro l'altro.
Il piccolo disegno è un luogo nero, oscuro e profondo illuminato da lucciole naviganti: alcune sono stelle, altri lampioni, ma non c'è nes­suna differenza. La città in questo caso è la Via Lattea. Niente che la possa descrivere, la si può solo intravedere.
E in quei giochi di rimandi straordinari quanto inaspettati che spesso l’arte si lascia acchiappare e ritrovare, di fronte a questo modo di procedere cosi deciso nel definire un perfetto ossimoro, ovvero la dilatazione di uno spazio come contenitore dell'infinito, la memoria di chi passa la vita a guardar quadri non può che richiamare — per quanto differente sia lo spessore, la qualità e il peso della materia — certe immagini di Anselm Kiefer come Hydra, Andromeda, Vela (ancora un tedesco, e proprio l'ultimo dei romantici!). Ma anche il notturno incantato, la città dell'utopia, del cubano Carlos Garaicoa, soprattutto l'installazione esposta nel 2005 alla Galleria Continua di San Gimignano che mostrava «De como la tierra se quiere parecer al cielo». Cielo e terra in questo caso vivevano della stessa realtà: una costellazione luminosa.
Se in un artista come Garaicoa l'effetto notte è netto e definito (nero del ferro e bianco della luce), qui ci troviamo decisamente di fronte a un mondo pulviscolare, soffuso, che ricorda certe indefinitezze romantiche. Ancora una volta è l'attrazione per il mondo nordico a dominare queste visioni, ma c'è anche un bel pezzo di Sicilia, quello che Gesualdo Bufalino declinava come luce e lutto.
Queste sono città in cui sotto i nostri occhi avvengono prodigi. Ma Puglisi le definisce il frutto di uno sguardo oggettivo su ciò che gli sta di fronte. Proprio come succedeva ai paesaggisti del passato, è il punto di vista a modificare l'immagine, a far si che tutto si annebbi, si appanni o si schiarisca prediligendo un particolare piuttosto che un altro, definendo una luminosità oppure un'ombra, o magari quel momentaneo abbraccio fugace che avviene tra le due.
Eppure, nonostante questa evidente allure romantica, quest'atmosfe­ra che trasuda «fuliggini spurie», per citare ancora una volta una defi­nizione destinata alla città da Bufalino, qui c'è qualcosa di nitido. Ed è la composizione: sempre studiatissima, come se il quadro fosse un'architettura, un edificio che deve reggersi in piedi.
Se si guardano in fila i tre dipinti di una stessa dimensione qui espo­sti, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un paesaggio che si muove lentamente. O meglio pare a noi di spostarci su di esso den­tro una traiettoria ben definita.
Prime luci relega il frammento di vita silenziosa in un angolo a sinistra, Dall'orizzonte in su lascia che si espanda sulla destra, Città si dilata sul fondo grazie a una luce che svela forme e linee. Viene da un lato, come succede in uno dei grandi amori di Puglisi, Vermeer. E qui si distingue un altro aspetto dell'artista siciliano, che ci conduce sì di nuovo nel Nord, ma questa volta non ha l'odore del vento dello Sturm und Drang, delle evanescenze turneriane o della spiritualità commossa di Friedrich, ma trattiene in sé freddezza, immobilità, ragione. E la città si trasforma in cortile, in interno, raggela dove ha bisogno di mostrare, dove la luce tocca l'oggetto rivelandolo. Senza pathos. In questo tracciato dall'ordine classico però, visto che a Giuseppe piace tenere insieme elementi lontani, sulla destra del dipinto si scova un'isola di luminosità incerta, come fosse costituita da piccoli fuochi, candele accese investite da una brezza che le fa vibrare. Sono luci artificiali, ma è come se noi stessimo guardando tutto con gli occhi socchiusi e così tutto palpita.
Lo spazio, nelle opere di Giuseppe, è perfettamente definito, ma la resa pittorica, volutamente, lo confonde. Alimentando così quel senso di mistero che attrae e poi inesorabilmente seduce in tutti i suoi quadri. Che siano nuotatori che fendono l'acqua con gesti lenti e sicuri, giardini di intrecci e di profondità segrete (con pertinenza Guido Giuffrè suggerisce il nome di Mario Mafai, altro artista lonta­no per spazi e generazione, la cui suggestione gli giunge probabil­mente attraverso la mediazione di Lorenzo Tornabuoni), navi che feriscono l’acqua con il loro peso di ombre, amanti che confondono i loro corpi in un abbraccio, Puglisi sa andare a scovare una bellezza dimenticata, meglio se imprecisa, un po' a rischio, non protetta da patine, da eccessi di pulizia formale. Meglio ancora se c'è della casua­lità, più che dell'ostinazione, nel suo ritrovamento.
«Posso usare un colore sporco e anche se cerco la leggerezza del tocco non temo di utilizzare, ad esempio, un pennello quasi consumato, che magari graffia. Se trovo qualcosa, uno spunto, mentre già sto lavorando lo seguo, mi lascio guidare. Sono infatti convinto che alla fine tutto si ricomponga in una armonia», affermava l'artista mentre mi mostrava Sulla città, la più grande e la più impegnativa tra le opere qui esposte. Ed ecco inanellato un altro elemento essenziale del suo procedimento pittorico: Puglisi si abbandona all'onda, non fa resistenza al quadro, se quello suggerisce una curva lui la asseconda, non lascia che l'idea iniziale possa impedire, o anche semplicemente ostacolare, l'esistenza pulsante e autonoma del dipinto che cresce davanti a lui.
Sulla città è l'immersione in un mondo blu. Anche il grande Prime luci invita a entrare, a fare ciò che Puglisi non si sognerebbe mai: attraversare il suo spazio urbano, percepirne fisicamente l'aria. Insomma, prendere la palla.
La variazione di azzurri, sempre in preda a una vocazione notturna e crepuscolare, di questa immensa città silenziosa è ipnotica, i solchi profondi che ne indicano le strade, le direzioni, creano diverse pro­spettive, suggerendo infinite possibilità di dilatazione spaziale. Tu sai che questa città è Catania, ma potrebbe trattarsi di un luogo deserto, abbandonato e riemerso, come un immenso sito archeologico, anco­ra tutto da studiare. E anche qui a inventare lo spazio è quella impal­pabile ma sicura unione di forma e luce. Il resto è un labirinto in cui perdersi, basta averne il coraggio.
Intanto però, lasciando Catania in volo, aiutati dall'oscurità della notte, basta affacciarsi per abbracciare con lo sguardo un gigantesco quadro di Puglisi che aspetta solo di essere agguantato e costruito sulla sintesi. In modo lucido e visionario: due estremi con cui l'arti­sta convive, che si riflettono tra loro. Perfettamente accordati, come fossero una pianta urbana e la mappa celeste.

Lea Mattarella
Effetto notte
in Paesaggi. Ritratti. Quattro pittori in Italia Guccione, Michielin, Puglisi, Velasco
Brescia 2007

 


   
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9-30 gennaio 2011
 
 
 
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